Marx, libertà e società civile


Marx, libertà e società civile

Il pensiero politico di Marx nasce e cresce a stretto contatto con la filosofia hegeliana in generale e con la filosofia del diritto in particolare.

Marx riconosce ad Hegel di aver compreso bene la separazione moderna tra la società civile (il luogo del libero gioco delle libertà egoistiche) e lo Stato (il luogo dell’interesse generale); tuttavia l’aver voluto ricomporre tale frattura attraverso una articolazione statuale per ceti e/o corporazioni che mediano l’interesse privato con quello generale, reintroduce nella politica moderna elementi della politica medioevale e premoderna: il vecchio Stato per ceti prerivoluzionario (tenere a mente gli Stati generali francesi: nobiltà, clero e terzo stato).

Per Marx invece bisogna partire e problematizzare questa netta divisione che si viene a creare all’interno delle società civili moderne che si presenta come una divisione strutturale. Sappiamo bene che la società civile è il regno delle libertà individuali e che nella prospettiva della insocievole socievolezza kantiana essa si caratterizza come il libero gioco degli egoismi privati in concorrenza fra loro all’interno di un quadro di economia di mercato. Sappiamo anche, come ha visto bene Hegel, che tale concorrenza fra individui, a differenza di quello che sosteneva Kant (la insocievole socievolezza come motore di sviluppo economico, tecnologico e culturale della società tutta), si è rivelata illusorio restituendoci sacche di povertà e di disagio sociale enormi a fronte di una creazione e di una concentrazione di ricchezza mai vista nelle società umane.

Ma ciò che caratterizza questo sviluppo ineguale non è tanto la diseguaglianza in sé, certo ha una sua importanza, ma, quello che Marx sottolinea, è che questa ineguaglianza perde il suo significato politico.

Infatti nella società feudale, nello Stato per ceti, la condizione di servo e signore è anche una condizione politica: il signore ha un suo diritti, ha le sue istituzioni, i suoi tribunali, i suoi doveri e il servo altrettanto. Sono sfere separate e la distinzione politica è chiara e netta.

Nello Stato di diritto borghese, uscito fuori dalla Rivoluzione Francese che Marx chiama Rivoluzione borghese, tutti i cittadini sono politicamente eguali di fronte alla legge a prescindere dalla posizione che occupano nella società e a prescindere dalle loro ricchezze. (vedi art. 3, primo comma, Costituzione italiana).

Vero è che i più ricchi, proprietari terrieri e industriali, si sono opposti, parliamo della seconda metà dell’800, al suffragio universale che ancora non è stato esteso ai meno abbienti o alle donne per esempio, tuttavia è chiaro, e questo è ben visibile sia a Kant che a Hegel, che la modernità si caratterizza per il principio formale che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge.

Ma dice Marx, e questo è il punto chiave della sua critica, l’eguaglianza politica vela, nasconde la ineguaglianza sociale.  L’ineguaglianza sociale, le differenze di ricchezza e tutto ciò che comportano sul piano sociale, sono occultate dal fatto che tutti siamo politicamente uguali.

La Rivoluzione borghese non sopprime l’ineguaglianza sociale, ne sopprime, invece, il significato immediatamente politico.

Anzi, fa molto di più: separando la società civile e di mercato, teniamo presente che Marx scrive in piena rivoluzione industriale a differenza di Hegel che scrive quando tale rivoluzione è appena cominciata, dalla sfera politica, lascia che le ineguaglianze presenti si sviluppino al massimo e riduce, come faceva Kant, la sfera politica a meccanismo che regola, non più il libero gioco delle libertà individuali, ma il libero gioco delle ineguaglianze sociali e le occulta sotto il principio della eguaglianza politica.

Come dobbiamo analizzare queste due sfere della modernità? L’eguaglianza politica da una parte e l’ineguaglianza sociale dall’altra?

Nello scritto Sulla questione ebraica, Marx parte dall’analisi della Costituzione più radicale emanata durante il periodo della Rivoluzione francese, quella giacobina del 1973.

E dopo aver ricordato che i diritti inalienabili dell’uomo e del cittadino siano l’uguaglianza, la libertà, la sicurezza e la proprietà, li esamina uno per uno.

Parte dall’articolo 6: la libertà è il potere che appartiene all’uomo di fare tutto ciò che non nuoccia ai diritti degli altri. Cioè tutto quello che noi possiamo fare, il confine all’interno del quale siamo liberi, è stabilito dalla legge: la mia libertà finisce dove inizia la libertà altrui. Sono sfere separate di libertà stabilite dal diritto cosi come, dice Marx, il limite fra due campi è stabilito per mezzo di un cippo. La libertà è così una forma di isolamento sociale dell’uomo dall’altro uomo, è il diritto limitato, a sé stesso, di fare tutto quello che la legge consente.

Ma in pratica cosa posso realmente fare?

Nell’analisi dell’art. 16 della stessa Costituzione è scritto che ogni cittadino può godere e disporre a suo gradimento dei beni, dei proventi, del frutto del suo lavoro e della sua industria e che il diritto di proprietà è un diritto che appartiene a tutti.

La libertà individuale, ragiona Marx, è funzione delle proprie sostanze. Detto in altri termini: è vero che tutti siamo formalmente eguali, ma nella sostanza, se così stanno le cose, chi ha più beni, chi è più ricco, è molto più libero degli altri perché può disporre di ricchezze maggiori di cui godere o da utilizzare. E questo è un punto della questione. L’altro punto è costituito dal fatto che l’uomo, in questa prospettiva, non trova nel suo simile, nell’altr’uomo, la sua realizzazione ma il suo limite.

L’eguaglianza è dunque l’eguaglianza di monadi isolate l’una dall’altra sancita per mezzo della legge.

E, l’ultimo punto, quello relativo alla sicurezza individuale è, di conseguenza, la garanzia di questa forma di egoismo: la sicurezza consiste nel fatto che tutti devono essere garantiti nel suo essere monadi isolate in concorrenza fra loro.

Nessuno di questi diritti dell’uomo, è la conclusione di Marx, va oltre l’uomo egoistico. L’uomo come membro della società civile è ripiegato su sé stesso, nel suo interesse privato, nel suo arbitrio personale, ed è in tal modo isolato dalla sua comunità.

L’unico legame che tiene insieme la società, cioè tutti gli uomini in società, è la necessità, il bisogno, l’interesse privato, la conservazione della proprietà e della loro persona egoistica.

Tutto questo permette di far dire a Marx che l’eguaglianza politica è illusoria e vela e occulta i rapporti di dominio di una classe sociale sull’altra. I proprietari dei capitali, della terra e dei mezzi di produzione esercitano tale dominio su coloro che, essendone privi, sono costretti, per poter vivere, a dover vendere la propria forza-lavoro (la propria capacità fisica e intellettuale) ai capitalisti che l’acquistano sono in quanto produca per loro un plus-valore (profitto).

Questi rapporti di dominio rendono, a loro volta, vana e illusoria qualsiasi forma di democrazia, persino quella democratico-radicale giacobina (gli articoli che Marx analizza sono infatti quelli della Costituzione del ’93, quella radical-giacobina).

Marx in ciò fa sua l’idea rousseauiana che non può esistere democrazia dove vi sono persone talmente povere da doversi vendere per vivere e persone talmente ricche da poter comprare gli altri. Questo darà sempre una capacità di ricatto ad una classe sull’altra e renderà impossibile l’agibilità di qualsiasi diritto di cittadinanza alla maggioranza dei cittadini che non posseggono nulla tranne che la loro capacità di lavorare per il capitalista. Inoltre, anche quando si raggiungerà il suffragio universale (siamo ancora nel periodo storico in cui a votare erano solo i maschi con un determinato censo), i capitalisti avranno sempre la possibilità di influenzare l’opinione pubblica a proprio vantaggio sia attraverso ‘’il ricatto del lavoro’’, sia attraverso il possesso dei mezzi di informazione (per quei tempi giornali e riviste), sia attraverso quelle capacità culturali e intellettuali che ai meno abbienti erano precluse (non vi erano scuole pubbliche e l’accesso all’istruzione era garantito solo a chi poteva pagarla).

Come si risolve tutto ciò?

Il ragionamento di Marx è il seguente: va soppressa l’antitesi fra società politica e società civile attraverso una rivoluzione (la via democratica delle riforme politiche è impraticabile per le ragioni che abbiamo visto sopra), per rifondare una comunità umana basata sulla libera associazione dei produttori (produttori sono i lavoratori salariati che, secondo Marx, sono gli unici a produrre ricchezza).

In questo modo vi sarà una graduale estinzione del potere politico come dimensione separata dalla sfera sociale.

In sintesi: attraverso la rivoluzione il proletariato s’impadronisce del potere politico e lo usa per socializzare i mezzi di produzione e, per questa via, sopprimere le differenze di classe. Dopo un periodo di lotte, anche violente, le differenze di classe scompariranno e insieme ad esse il potere politico. Il potere politico si estingue perché esso altro non è che l’organizzazione politica (lo Stato) che rende possibile l’oppressione di una classe sull’altra.

Senza differenze di classe non vi sarà bisogno della sfera politica e quindi, di conseguenza, dell’organizzazione statale.

Questo percorso di estinzione dell’ordine politico basato sulle differenze di classe si avrà in due tempi.

Il primo è quello che Marx chiama socialismo: presa del potere per via rivoluzionaria, socializzazione dei mezzi di produzione e distribuzione dei beni secondo il principio ‘’a ciascuno secondo il suo lavoro’’. In questa fase, secondo Marx, le forze produttive e la ricchezza collettiva si svilupperanno oltre ogni possibile immaginazione e, solo a questo punto, la società potrà trasformarsi lasciando spazio a un principio più elevato e più libero: ‘’da ciascuno secondo il suo lavoro a ciascuno secondo i suoi bisogni’’. Solo in questa fase la differenza fra sfera politica e sfera sociale può scomparire.